concorso straordinarioNella Sediva news del 30/11/2012 (“L’inquietante nota ministeriale sul concorso straordinario”) abbiamo illustrato, e criticato come si conveniva, il parere espresso in data 23 novembre 2012 dall’Ufficio Legislativo del Ministero della Salute in risposta ad alcuni quesiti della Fofi sul concorso straordinario.

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In quella circostanza, temendo che un ostacolo all’acquisizione di diritto dell’idoneità da parte di chi consegua la titolarità di una farmacia in forma associata possa derivare dal disposto del comma 2 dell’art. 7 della l. 362/91 (“…sono soci della società farmacisti… in possesso del requisito dell’idoneità previsto ecc.”), tentava di superare tale supposto impedimento riconducendo a forza anche i concorrenti in forma associata nella disposizione di cui al secondo comma dell’art. 12 della l. 475/68, dettata espressamente per il titolare in forma individuale, e secondo la quale – tra l’altro, e in estrema sintesi – il farmacista che risulta assegnatario di una farmacia per concorso acquisisce per ciò stesso l’idoneità, essendo questa contenuta, come il meno nel più, nella titolarità da lui conseguita.

In particolare, secondo la nota, l’art. 11 del dl. Cresci Italia avrebbe introdotto nel sistema – oltre alla titolarità individuale e alla titolarità sociale – una non meglio identificata contitolarità di farmacia, quindi una terza forma di titolarità che andrebbe ascritta congiuntamente a tutti (due o più) i concorrenti che in forma associata abbiano conseguito in via definitiva una farmacia; di qui, essendo pure costoro dei (con)titolari di farmacia per aver “vinto il concorso”, l’acquisizione dell’idoneità anche da parte loro ex art. 12, l. 475/68, senza pertanto dover fare i conti con i fantasmi generati dal comma 2 dell’art. 7 della l. 362/91.

Senza ripercorrere ancora una volta l’analisi critica di questa tesi (che è costretta per di più a postulare, nelle “speciali” – per il Ministero – società costituite tra vincitori in forma associata, una fantastica dissociazione tra titolarità della farmacia, pertinente congiuntamente ai soci, e gestione dell’azienda commerciale, spettante alla società come tale) e riesaminare le nefaste conseguenze che, se recepita e fatta propria da regioni e/o comuni, potrebbero derivarne nei concorsi straordinari ormai in fase di ultimazione (chi ha interesse può comunque rileggere la citata Sediva news), dobbiamo oggi dar conto di un ulteriore “passo in avanti” del Dicastero che – evidentemente non pago di aver configurato un’idea perfettamente aprioristica come questa – è ora andato addirittura ben oltre.

Un farmacista veneto, attento lettore di questa Rubrica e acuto osservatore di quel che accade nel mondo del diritto delle farmacie, ci ha infatti trasmesso in questi giorni un estratto dal n. 97 del 2 aprile u.s. del BUR Emilia Romagna in cui è pubblicata la “Determinazione Direttore Generale sanità e politiche sociali 6 marzo 2014, n. 2876”, che “determina” la “non ammissione al concorso pubblico regionale straordinario” emiliano di due candidati, uno dei quali (e con lui naturalmente anche tutti gli altri candidati con lo stesso partecipanti in forma associata)” perché “privo del requisito di partecipazione alla procedura di assegnazione di sede farmaceutica consistente nel “non aver ceduto la propria farmacia negli ultimi 10 anni”, di cui all’art. 2.6 del bando di concorso, in coerenza (sic!) alla previsione di cui all’art. 12 comma 4 della L. n. 475 del 1968”.

Nelle premesse della “Determinazione”, che raccontano la vicenda, si legge in particolare:

  • che questo candido, ma incauto e sfortunato farmacista aveva “dichiarato di essere stato socio di una società titolare di farmacia (non importa se rurale o urbana: ndr) che, nei dieci anni precedenti alla domanda di concorso, ha ceduto ad un terzo l’”azienda farmacia””;
  • che la Direzione regionale aveva chiesto “al Ministero della Salute, Direzione Generale di Dispositivi Medici, del Servizio Farmaceutico e della Sicurezza delle Cure (una maxi D.G., come vediamo: ndr) di chiarire se la cessione della titolarità dell’intera “azienda farmacia” a terzi, nel caso in cui un candidato fosse socio al momento della cessione, comporta, per quel candidato, il mancato possesso del requisito di partecipazione alla procedura di assegnazione di sede farmaceutica consistente nel “non aver ceduto la propria farmacia negli ultimi 10 anni di cui ecc.”;
  • e che il Dicastero con nota n. 6955-P-27/1/2014 del 27 gennaio 2014 (concepita ed elaborata, supponiamo, dalla stessa D.G. cui il quesito era stato rivolto), conservata in atti del servizio regionale “Politica del farmaco”, ha “chiarito (?) che nella fattispecie descritta è ravvisabile quella cessione di titolarità cui fa riferimento il legislatore quando ne fissa limiti e restrizioni nella legge 475/1968, trattandosi, in punto (?), di cessione di titolarità a terzi d’intera azienda”.

Se quindi per l’Ufficio Legislativo del Ministero la titolarità della farmacia pertiene congiuntamente ai soci soltanto nelle società personali costituite tra vincitori in forma associata ma non in quelle formate ai sensi dell’art. 7 della l. 362/91 (e non c’è dubbio che il convincimento fosse proprio questo, se riguardiamo la nota del 23 novembre 2012 dove la contitolarità tra i soci è configurata testualmente come vicenda “in deroga” appunto all’art. 7), invece ‑ per quella maxi Direzione Generale, evidentemente tuttologa ‑ anche nelle società di “diritto comune” devono ritenersi sempre i soci, e sempre congiuntamente tra loro, i soggetti autorizzati all’esercizio della farmacia o, se si preferisce, i concessionari del relativo servizio pubblico, e conseguentemente gli autentici (con)titolari.

Perciò, quando una qualunque società di farmacisti cede e trasferisce a terzi l’“azienda farmacia” (almeno la cessione di singole quote sociali è quindi fuori pericolo…) è solo questa – coerentemente con la dissociazione titolarità-azienda ipotizzata dalla nota ministeriale precedente – l’oggetto della cessione, e non anche dunque il diritto di esercizio (=titolarità) che è invece trasferito congiuntamente da tutti i soci, cosicché, intervenuta la cessione, costoro incappano tutti nella preclusione decennale di cui al quarto comma dell’art. 12 della l. 475/68.

Non sappiamo se ridere o piangere, ma indubbiamente è difficile non convenire con il sempre più massiccio movimento politico e d’opinione che invoca un brusco ridimensionamento, nel ruolo e nelle persone, della nostra alta e meno alta burocrazia, in grado, come abbiamo appena dovuto constatare, di sfornare sciocchezze con la più grandiosa disinvoltura (non disponiamo del testo integrale di questa nota ministeriale, ma quel che ne riferisce il provvedimento della Regione pare sufficiente per qualificarla come merita).

Faremmo torto a chi legge se ci attardassimo più di tanto sull’inconsistenza di questa forzosa riconduzione a farmacisti persone fisiche (quelli che partecipano ad una società) anche della titolarità di una farmacia sociale, che può infatti essere ascrivibile soltanto alla società come tale, non quindi ‑ pensando, poniamo, ad una sas – all’accomandante che possiede l’1% del capitale e neppure all’accomandatario che partecipa per il residuo 99%.

È in ogni caso una riconduzione puramente apodittica perché senza un fondamento, né di lettera né di sistema, e per di più contraddetta da tutto: d’altra parte, trascurando per carità di patria il codice civile, che pure da solo non dà scampo ai ministeriali, basterebbe scorrere il fondamentale comma 1 dell’art. 7 della l. 362/91, secondo cui “la titolarità dell’esercizio della farmacia privata è riservata a persone fisiche…, a società di persone ecc.”, dove pertanto pare indiscutibile la volontà del legislatore di ben distinguere in principio le une dalle altre.

Senza contare, per tornare alla preclusione decennale, che il quarto comma dell’art. 12 – dettata in termini non equivoci per il solo “farmacista che abbia ceduto la propria farmacia” – è una disposizione ovviamente restrittiva che non tollera quindi letture o interpretazioni analogiche, né amenità del genere.

Nessuno può negare, beninteso, che almeno alcune delle tante disposizioni previgenti alla l. 362/91 (e quindi all’ingresso nella normativa di settore della società personale tra farmacisti quale soggetto legittimato ad assumere la titolarità di una farmacia), pur scritte certamente per il solo titolare in forma individuale, potrebbero essere estese anche ai farmacisti soci.

Ma a questo deve provvedere in principio il legislatore che infatti vi ha provveduto, ad esempio, proprio sul versante dell’idoneità cui accennavamo all’inizio.

Come d’altronde vediamo disposizioni che, pur destinate espressamente al socio, potrebbero riguardare anche il titolare in forma individuale (si pensi al sistema delle incompatibilità di cui all’art.8 della l. 362/91), essendo però anche in tal senso necessaria (ancor più che nel caso precedente) una precisa disposizione di legge.

Certo, è sempre possibile in astratto – conoscendo i nostri giudici amministrativi – che sia invece il Consiglio di Stato (e sotto qualche aspetto anche la Corte Costituzionale), nella sua incessante attività pretoria, a porre qualche tassello di raccordo tra i due sottoinsiemi, ma è sicuro che quest’opera di cuci-scuci non può competere a un funzionario ministeriale cui non è permesso creare dal nulla una norma che non c’è.

Del resto qui persino il Supremo Consesso amministrativo avrebbe grandi difficoltà a riferire a persone fisiche, anche se congiuntamente tra loro, la titolarità della farmacia di una società di farmacisti, perché, come si è appena ricordato, il primo comma dell’art. 7 della l. 362/91 esprime una chiara scelta di campo del legislatore, anzi un principio fondamentale e portante del sistema che quindi permea fatalmente tutte le disposizioni che siano ad esso anche indirettamente riconducibili.

L’incapacità, l’accidia, o peggio ancora, di amministrazioni – pur robuste e organizzate come quelle regionali – di sbagliare con la propria testa, rimettendo sostanzialmente a un quasi “quisque de populo” come il Ministero (in questo caso, della Salute) qualsiasi patata men che fredda, così da trarsi d’impaccio ogni qualvolta sia possibile sfuggire alle proprie responsabilità, è dunque all’origine anche di questa brutta storia emiliana che rischia purtroppo di infettare, grazie all’intermediazione ministeriale, tutti i concorsi straordinari.

Come se insomma i concorsi non fossero già per conto loro ricchi di criticità e portatori di problemi su parecchi fronti, sopraggiunge anche una tegola del genere; sciaguratamente, però, quella precedente – pur censurata vibratamente e senza sconti (c’è stata, ci pare, una sola immancabile voce “filo-governativa”…) sia dall’inclita che dal volgo – non è stata oggetto della minima riflessione in sede ministeriale, e quest’altra, che va persino al di là della prima e che può rivelarsi foriera, se ci ragioniamo un istante, di mille altre conseguenze, rischia nei fatti di non avere miglior sorte.

Sarebbe tuttavia il caso che almeno in questa vicenda chi può e/o chi deve faccia di tutto – reagendo adeguatamente a questi imperdonabili infortuni ministeriali – per spegnere l’incendio prima che divampi e faccia danni (nella grande platea dei partecipanti ai concorsi straordinari, ma in realtà nell’intera categoria in generale), senza dover attendere a tutti i costi il giudice amministrativo.

Al quale comunque quel farmacista “non ammesso” al concorso emiliano farà sicuramente ricorso.

(gustavo bacigalupo)

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